Lavoro bivocazionale virtuoso - Atti 20,27-38
Predicatore: Leonardo De Chirico
Le mani dicono molto di una persona. Tra le altre cose, dicono che tipo di lavoro fa. Le persone che svolgono un lavoro prevalentemente manuale avranno mani callose e consumate. Pensate alle mani di muratori, operai, cuochi. Le persone che svolgono un lavoro prevalentemente impiegatizio avranno mani dalla pelle più liscia. Tu che mani hai?
Qualche volta, quando parla di sé e del lavoro che fa, Paolo fa riferimento alle sue mani (1 Corinzi 4,12) per parlare del suo lavoro. Anche nel testo che abbiamo letto, Paolo è come se stesse mostrando le sue mani per dire: guardatele, ci sono i segni del mio lavoro. Paolo infatti, accanto alla sua attività apostolica fatta di viaggi missionari e di fondazione di chiese, aveva svolto anche un’attività lavorativa che procurava qualche guadagno per mantenersi. Ad esempio, in Atti 18,3 ci viene detto che quando Paolo da Atene arrivò a Corinto, trovò una coppia di amici, Aquila e Priscilla, ed andò ad abitare e a lavorare con loro. Il loro lavoro consisteva nella fabbricazione di tende: tende di pellame o di tessuto, da cucire insieme intorno ad una struttura di legno. Quindi un lavoro di falegnameria, di tessitura, di taglio e di assemblaggio, per confezionare tende e per venderle in modo da sostenersi nel servizio apostolico. Un lavoro che aveva reso le sue mani callose e che lui mostra nel discorso che fa in Atti 20.
Più volte Paolo fa riferimento a questo suo lavoro: parla di un lavoro duro (1 Ts 2,9; 2 Ts 3,7-9), fatto di fatica e pena, per non essere di peso a nessuno. Paolo è un apostolo che ha ricevuto dei doni a sostegno del suo ministero apostolico in alcuni momenti della sua vita, ma in altre stagioni della sua missione, ha dovuto provvedere a sé stesso per mantenersi tramite un lavoro manuale remunerato. Il suo era un servizio bi-vocazionale: cioè univa la missione apostolica di viaggiare per fondare e rinforzare le chiese con l’attività lavorativa di fabbricatore di tende. Lui viveva in modo flessibile, pienamente impegnato nell’attività missionaria per cui riceveva doni occasionali a volte integrati o rimpiazzati dal reddito di un lavoro manuale. Paolo era un missionario artigiano o un artigiano missionario.
Per questa ragione, Paolo, insieme ad Aquila e Priscilla ed altri con loro, rappresenta un modello per vivere le nostre bivocazionalità in modo virtuoso. Cosa vuol dire in modo virtuoso? Vuol dire che il servizio al Signore può essere vissuto attraverso ogni lavoro legittimo, anche combinando diversi lavori tra loro o in fasi diverse della vita. Non esistono lavori superiori o inferiori, ma ogni lavoro può essere vissuto come campo in cui onorare Dio e servire l’estensione del suo regno. Vuole anche dire che nelle nostre vite dobbiamo vivere il lavoro in modo flessibile e aperto alla volontà di Dio. Non esiste un modello unico, fisso e definitivo, ma più gradazioni, più variabili da tenere insieme. Virtuoso vuole dire anche che la bivocazionalità espone a vite piene, intense, faticose, ma ricche e remunerative sotto molti aspetti. Virtuoso vuole dire che siamo tutti impegnati nella missione di fondare e rinforzare la chiesa, in qualunque modo ci dedichiamo ad essa.
Nel discorso commuovente che abbiamo letto, Paolo fa un bilancio della sua vita bi-vocazionale e ci indica tre condizioni per vivere le nostre bi-vocazionalità in modo virtuoso.
1. Se liberi da concupiscenza e da invidia
Paolo dice: “non ho desiderato l’argento, né l’oro, né i vestiti di nessuno” (v. 33). Questa è la prima condizione per vivere in modo benedetto la nostra bivocazionalità. Essere liberi dalla concupiscenza delle cose altrui e dall’invidia per le condizioni di vita di altri. Nel girare diverse città, regioni e paesi, Paolo era stato in contatto con diversi stili di vita, dentro e fuori la chiesa. Si era confrontato col fatto che alcuni avevano più e altri meno. Lui che, viaggiando, avrebbe avuto il diritto di essere sostenuto per questo servizio, era libero di non essere di peso a nessuno autofinanziando la sua vita e preparando così la tappa successiva del suo ministero senza dipendere da altri. Qualche volta avrà potuto chiedersi guardando famiglie agiate: “guarda come sono ridotto io: devo lavorare tanto senza avere una dimora stabile quando questi guadagnano tanto senza spostarsi”; “guarda, io non ho sicurezze economiche, quando questi sembrano avere tutto”.
Quanto è facile lasciare libero campo alla concupiscenza, cioè il desiderare le cose degli altri! E la concupiscenza porta all’invidia: l’insoddisfazione per quello che si ha, la recriminazione per non avere quello hanno gli altri, e l’astio nei confronti di chi ha cose che noi non abbiamo. Anche quando Paolo lavorava giorno e notte, arrivando a momenti limite di sopportazione del peso di tenere insieme tutta la complessità della sua vita, non è stato invidioso e concupiscente. Era libero da invidie personali e sociali. Non cadeva mai nella trappola di sentirsi vittima, di essere in debito, di non avere ciò che si meritava. Invece di guardarsi intorno con invidia, Paolo aveva imparato a guardare a Dio con gratitudine. Dio lo aveva amato, chiamato, salvato, inviato e si era preso l’impegno di sostenerlo. Questo gli doveva bastare e questo deve bastare a tutti noi. Ci sarà sempre qualcuno che vive meglio e con più. Ci sarà sempre la tentazione di pensarci vittime e di invidiare chi ha di più. Dio ci liberi dalla concupiscenza e dall’invidia. Qualunque cosa Dio ci chiama a fare, guardiamo a Lui soltanto quando le cose si fanno dure. Con l’invidia coltiveremo amarezza, malcontento, maldicenza. Con la gratitudine nutriremo riconoscenza e avremo la forza di andare avanti nel momento della tentazione. Paolo poteva dire: “ho imparato ad essere contento dello stato in cui mi trovo” (Filippesi 4,11b). Sei tu contento di quello che Dio ti ha dato? Anche se è poco, anche se fai fatica, anche se ci sarebbe bisogno di più, sii riconoscente e chiedi a Dio aiuto per continuare, senza scadere nell’invidia.
2. Se pronti ad occuparsi di sé e di altri
Un’altra condizione per vivere in modo virtuoso la bi-vocazionalità è nel versetto successivo. Paolo dice: ho provveduto ai miei bisogni, di coloro che sono con me, avendo sempre davanti anche i bisogni dei più deboli (vv. 34-35a). La sua visuale non era solo mirata su sé stesso, ma era libero di pensarsi in mezzo ad altri, con altri. Se si guardava intorno non era per invidiare chi aveva di più, ma per aiutare che aveva meno. Paolo non era sposato e quindi non aveva una moglie e figli a cui provvedere. Eppure il suo celibato non era vissuto in modo egoistico. Viveva con un spiccato senso comunitario. Non solo non voleva essere di peso ad altri, ma voleva essere di aiuto ad altri.
Aquila e Priscilla, fabbricatori di tende con Paolo, danno un bell’esempio qui. A Roma aprono la loro casa per ospitare la chiesa (Romani 16,3-5), a Corinto aprono la loro casa a Paolo (Atti 18,3) e poi aiutano Apollo a crescere nella fede (18,26). La loro vita molto precaria è comunque aperta a condividere quello che hanno con altri: la loro casa, la loro fede, la loro vita. Paolo non è da meno. Venuto a sapere della carestia a Gerusalemme, si dà da fare per organizzare una colletta tra le chiese a sostegno dei poveri là (2 Corinzi 8). Lui ha i suoi bisogni personali impellenti, certo, ma il suo cuore è sensibile a quelli delle chiese più povere ancora.
Il lavoro bi-vocazionale è virtuoso se è generoso. Se è lamentoso, è arido. Se è invidioso, porta solo amarezza. Se è concupiscente, è una fabbrica di insoddisfazione permanente. Invece, se è generoso, allora è veramente libero. Se non è concentrato solo su sé stesso, allora è ricco ed arricchente altri. Quanto è grave il peccato della concupiscenza; quanto è pernicioso il peccato dell’egoismo! Non basta essere bi-vocazionali per vivere in modo virtuoso la nostra chiamata. Non di una bi-vocazionalità qualunque abbiamo bisogno, ma di una che sia ricca di gratitudine e ricca di generosità, come la Parola di Dio ci insegna e come Paolo e Aquila e Priscilla hanno vissuto. La vivremo così anche noi a Roma?
3. Se aperti a dare più che a ricevere
C’è una terza e ultima condizione per vivere una bi-vocazionalità virtuosa. Non invidiosa, non egoista, ma anche aperta a vivere quello che dice Gesù: c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (v. 35b). Questo è un insegnamento che non troviamo nei quattro vangeli, ma che è stato trasmesso dal Signore risorto a Paolo direttamente. La cosa più bella non è ricevere, ma dare. Non che ricevere sia brutto o sbagliato. La vita deve ricevere dagli altri: non c’è niente di sbagliato nel ricevere aiuto, sostegno, appoggio, soldi. Siamo all’interno di una rete in cui riceviamo dai genitori, dalla famiglia, dagli amici, dalla chiesa, dallo stato, ecc. Ma proprio perché siamo in una rete, come riceviamo, dobbiamo dare a nostra volta. Il circolo della vita è che riceviamo, ma non arrestiamo il flusso. Come riceviamo, diamo e così contribuiamo a benedire altri. Ora, nel ricevere siamo grati, ma nel dare siamo ancor più gioiosi. Ricevere e dare non sono in opposizione, ma vi è più gioia nel rilasciare risorse, che nell’assorbirle.
La bi-vocazionalità è complessa, difficile e faticosa. Ma se vuole essere virtuosa deve essere gioiosa. Non lamentosa, ma grata. Non autocentrata, ma policentrica. Non consumistica di risorse soltanto, ma distributrice di benedizioni. Questo è un rovesciamento della nostra cultura del lavoro. La cultura del lavoro intorno a noi ci pompa a considerarci vittime, ci spinge all’invidia, ci fa incurvare su noi stessi, ci educa a consumare più che a rilasciare. Come è possibile cambiare?
Per cambiare, non bastano le mani di Paolo, per quanto esemplari esse siano. Per vivere la bi-vocazionalità virtuosa abbiamo bisogno di un altro paio di mani: quelle di Gesù. Le mani di Gesù lavorarono nel mestiere di falegname. Onorarono il lavoro, anche quello manuale. Se le tue mani sono affaticate, le mani di Gesù lo sono state pure. Le mani di Gesù hanno guarito chi è stato toccato: ciechi, zoppi, malati. Anche tu puoi essere guarito dal tocco di Gesù. Le mani di Gesù hanno benedetto i bambini. Anche tu puoi essere benedetto dal Signore. Come quelle di Paolo, come le tue mani, anche le mani di Gesù hanno asciugato lacrime, hanno portato pesi, hanno subito ferite. Ma c’è qualcosa che né le mie, né le tue mani, nemmeno quelle di Paolo hanno mai fatto.
Di fronte allo scetticismo di Tommaso, in Giovanni 20,27, Gesù gli disse: “guarda le mie mani”. Le mani forate dai chiodi della croce, le mani perforate a causa del nostro peccato. Le mani sofferenti per portare le nostre colpe. Eppure, mani vive, mani di una persona morta e risorta e che vive oggi. “Guarda le mie mani” dice Gesù oggi. Le mani di Gesù hanno reso possibile il cambiamento radicale. Le mani di Gesù possono cambiare la cultura malata del lavoro e guarirla. Lui è morto e risorto per ridare senso anche alla tua bi-vocazionalità, liberandola dalla concupiscenza, aprendola alla generosità, facendole scoprire la gioia del dare. Non chiudere le tue mani in segno di rigetto e ribellione. Aprile per ricevere dalle mani di Gesù la grazia di cui hai bisogno.