“La gloria si è allontanata! E’ con Dio che si fanno i conti” - 1 Samuele 4,1-22

 
 

Predicatore: Leonardo De Chirico

Nel gioco del calcio c’è il “fallo di confusione”. Quando l’arbitro vede una situazione confusa in cui ci sono tante scorrettezze in corso, nessuna delle quali si impone come la più vistosa, fischia e fa fermare il gioco. Il gioco non può andare avanti così. Si può dire che all’inizio del libro di Samuele, Anna abbia fischiato un fatto di confusione. Qualcosa non andava nel popolo: c’era infedeltà, regressione, ipocrisia, mancanza di speranza e di futuro. Lei aveva detto “no”: non si può andare avanti così. Il gioco doveva ripartire. Il capitolo 2 aveva descritto il problema nel concentrarsi sulla vita dei sacerdoti infedeli, i figli di Eli. Ma ora, al capitolo 4, finalmente viene detto qual è il problema. Non è più un fallo di confusione, ma un fallo specifico e devastante. Viene identificato in un nome : “Icabod”, in ebraico “non più gloria”. Eccolo il problema: la gloria di Dio non c’è più, sparita.

Prima di rivelarci qual è il problema, questo capitolo mostra come ancora il popolo cerchi un diversivo, un modo per risolvere il problema senza fare i conti con la realtà. Quante volte, di fronte al vero problema, noi cerchiamo di evaderlo, di non affrontarlo, provando soluzioni per superarlo senza risolverlo. Quante volte, invece di fare i conti con la realtà del nostro peccato, cerchiamo un modo per andare avanti lo stesso, a testa bassa, a muso duro, invece di fermarci, vedere il vero problema e ripartire da lì. Vedremo due modi in cui il popolo cerca di andare avanti lo stesso prima che Dio riveli qual è il vero problema.

1. Mostrare i muscoli, a cosa serve?
La preghiera di Anna e la storia dei due sacerdoti figli di Eli hanno messo in evidenza i problemi “interni” al popolo. C’era un generale stordimento e malessere spirituale e una particolare infedeltà dei sacerdoti. La vita interna era malata, gravemente malata. Questo capitolo 4 ci parla anche di una crisi “esterna” al popolo: da anni c’era un conflitto con i Filistei, una popolazione con cui Israele era in costante conflitto armato. Era una guerra fatta di continue battaglie e scontri che minavano dall’esterno la pace e la sopravvivenza. La crisi era interna, con il rischio di implosione, ed esterna, con il rischio di esplosione. Il peccato aveva creato una tenaglia che da due direzioni stava schiacciando il popolo. Il peccato crea una morsa sulla nostra vita in quanto le mette pressioni da tutti i lati volti a schiacciarci. Quando si lascia campo al peccato, gli effetti non si vedono solo in un campo, ma su tutta la vita. Tutta la vita è minacciata e a rischio: le relazioni con gli altri, il lavoro, la famiglia, il nostro cuore. Tutto è messo dentro una morsa mortale.

In questa situazione grave, ma ancora non percepita come tale, cosa fa Israele? Va in battaglia contro i Filistei (v. 1). Si tratta di una scelta scellerata. Invece di rendersi conto dell’esistenza di un problema con Dio e tra di loro, il popolo decide di trovare una valvola di sfogo esterna nella speranza che la guerra coi Filistei copra i veri problemi e sposti l’attenzione altrove. Invece di realizzare la propria impotenza ed il proprio bisogno, il popolo ingaggia una guerra, mostrando i muscoli e volendo dare una prova di forza. Quando siamo deboli e non vogliamo ammetterlo, spesso cerchiamo occasioni di scontro per dimostrare che siamo forti. Che illusione!

E infatti la sconfitta arriva (v. 2): quattromila morti, un disastro. Il popolo ha cercato di nascondere la realtà e di costruirsene una falsa che però è un’operazione fallimentare. Cercano la vittoria sulla base di un esercizio muscolare ed escono invece pesantemente sconfitti. Non si esce mai dalla realtà di Dio. Se cerchiamo di costruire i nostri mondi basati sulla menzogna, sull’ipocrisia, sulla testardaggine, andiamo verso la disfatta. Se cerchiamo di mostrare i muscoli quando invece dobbiamo inginocchiarci, il risultato è il crollo. Ecco qui la vocazione profetica: il profeta è uno che riporta alla realtà di Dio. Il messaggio del profeta è: invece di provare ad evadere la realtà e far finta di essere chi non sei, torna all’analisi di Dio su di te e riparti da lì. Non provare a fare il gradasso e a fuggire cercando via di uscita fai-da-te: torna a Dio, sarà sempre la scelta vincente anche se passa attraverso il pentimento dal peccato. Se cerchiamo soluzioni e vittorie senza Dio, ci saranno solo sconfitte cocenti. Siamo pronti ad essere un popolo profetico gli uni per gli altri richiamandoci sempre alla realtà di Dio? Siamo pronti a smontare l’orgoglio di Roma per dire alla nostra città che senza Dio ci saranno solo sconfitte?   

2. Rifugiarsi nella religione, a cosa serve?
Dunque, il popolo ha cercato di trovare una valvola di sfogo, ma invece di riscattarsi ha subito perdite devastanti. Si chiede allora: “perché è successo?” (v. 3). Si fanno la domanda giusta, ma la risposta che si danno è sbagliata! Provano un’altra volta a fuggire dalla realtà e darsi una spiegazione di comodo. Ah, ci eravamo dimenticati di Dio! O meglio, “ci eravamo dimenticati della religione. Non avevamo con noi l’arca di Dio; se solo torniamo in battaglia con l’arca, sarà tutta un’altra storia”.

L’arca era una cassa di legno che conteneva le tavole della legge e che rappresentava visibilmente l’impegno dell’alleanza con Dio. Era un segno dell’alleanza, cioè di un patto di fedeltà al Signore: ubbidendo alla legge e servendolo con integrità. Il popolo scambia l’arca come una sorta di amuleto, di oggetto magico, di bacchetta magica in grado di cambiare la situazione a piacimento. Se l’arca è con noi, vinceremo. Ma l’arca era solo un segno della presenza di Dio, non Dio stesso. Senza la fedeltà al Signore, l’arca era una cassa di legno con due pietre dentro. Dopo aver provato a trovare una via di uscita dalla crisi mediante una prova di forza, e aver fallito, provano a trovare un’altra via di uscita mediante il ricorso alla religione. Infatti, vanno a prendere l’arca (v. 4) e fanno una festa quando arriva nell’accampamento (v. 5). Sembra che sia la scelta vincente: i Filistei hanno paura (v. 7) perché ricordano quando Dio sconfisse gli egiziani a favore del popolo di Israele. Tutto sembra essere cambiato con la religione. E invece non cambia niente: di nuovo il popolo, questa volta con l’arca, è sconfitto ancora più malamente: trentamila morti, l’arca catturata, i sacerdoti eliminati (v. 10). Hanno provato ad usare Dio come bacchetta magica, senza pentimento, senza confessione, senza niente. L’arca di per sé non fa alcuna differenza. Dio non è l’arca. Non si può inscatolare Dio. Non si può scambiare Dio con il possesso o la vicinanza dell’arca.

La religione di per sé non serve a nulla. Se non è basata su una relazione con Dio ripristinata grazie a Gesù Cristo, tutte le devozioni, le processioni, le formule, le preghiere, le pratiche non servono a nulla. Dio non è in loro. La religione cosiffatta è un’ulteriore fuga dalla realtà che ha risultati rovinosi. Roma è strapiena di religione, piena di edifici, oggetti, tradizioni, pratiche, ma Dio non c’è. La nostra vita scambia la comunione con Dio con pratiche vuote pensando di addomesticare Dio e di usarlo come lampada di Aladino. Le conseguenze sono disastrose. Dopo aver provato a risolvere il problema da soli e fallendo, provano a risolverlo con l’arca e falliscono di nuovo. Stai anche tu provando a girare intorno al problema di fondo cercando soluzioni pret-à-porter che non mettano in discussione il tuo peccato?

3. La gloria di Dio non c’è più: questo è il problema
La situazione è un vero disastro: anche Eli, sentendo la notizia, cade all’indietro e si spacca l’osso del collo (v. 18). Lutti su lutti, sofferenza su sofferenza, tragedia dopo tragedia. In questo quadro devastante, nasce un bambino (v. 19). E’ il secondo bambino che nasce nel libro. Il primo è stato Samuele, il profeta, da cui sarebbe ripartita la speranza per il popolo. Qui nasce un secondo bimbo in circostanze drammatiche. La mamma muore, trascinata nel giudizio contro quella generazione (v. 20), ma lui sopravvive. E’ un segno di speranza in una scena terribilmente buia. Il suo nome è finalmente la soluzione al rebus. La mamma, prima di morire, lo chiama “Icabod” dicendo “la gloria di Dio si è allontanata da Israele” (vv. 21-22). Questa è l’analisi corretta della situazione. Questa è la verità da cui ripartire. Questa è la realtà con cui fare i conti. La gloria di Dio non c’è più: questo è il punto decisivo. Questa donna, dando questo nome a suo figlio, dà l’interpretazione giusta alla situazione. E’ un’interpretazione terribile, ma vera. Senza prendere atto che la gloria di Dio è in gioco, non si va da nessuna parte.

La gloria di Dio è stata persa con il peccato, non solo per quella generazione, ma per tutti noi: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Romani 3,23). Entrando il peccato, la gloria di Dio è andata via. Questa è la verità. Cerchiamo di rimpiazzarla con i nostri modi secolari o religiosi, ma invano. La vita senza la gloria di Dio è un fallimento dopo l’altro. Questo bambino Icabod portava nel suo nome il giudizio di Dio sul popolo. Samuele, l’altro bambino, avrebbe iniziato a preparare la soluzione: l’arrivo di un re che avrebbe protetto e guidato il popolo e che avrebbe costruito una casa dove la gloria di Dio sarebbe stata di nuovo visibile e dove il peccato sarebbe stato espiato.

Ma c’è stato un altro bambino che questa gloria l’ha incarnata in sé. Questo bambino è Gesù il cui nome significa “Dio salva”. In lui la gloria di Dio si è manifestata appieno (Giovanni 1,14). Icabod poteva solo annunciare il giudizio; Samuele poteva solo preparare la via, ma Gesù ha mostrato visibilmente la gloria di Dio. In Lui, la gloria di Dio è tornata! Noi la possiamo contemplare, essere trasformati e irradiarla intorno a noi (2 Corinzi 4,6). Icabod ha annunciato che Dio non c’era; Gesù ha annunciato che Dio è con noi, Emmanuele. Dove sei tu? Sei rimasto a Icabod o sei venuto a Gesù l’Emmanuele?

Oggi la tua vita si gioca tra Icabod e Emmanuele. La gloria di Dio lontana, la gloria di Dio vicina. Sotto il giusto giudizio di Dio a causa del nostro peccato, sotto l’amorevole salvezza di Dio in Cristo. Questo è il messaggio profetico che vogliamo proclamare a Roma!